Fin dall’antichità l’uomo si è preoccupato di garantire giuridicamente l’eguale accesso all’acqua.
Nelle Institutiones di Giustiniano, base del diritto romano e fondamento giuridico di molti Stati moderni, l’acqua è concepita come bene pubblico:
Per legge di natura questi elementi sono comuni a tutta l’umanità: l’aria, l’acqua dolce, il mare, e quindi le sponde del mare.
In India lo spazio, l’aria, l’acqua e l’energia sono tradizionalmente considerati esterni ai rapporti di proprietà.
Nelle tradizioni islamiche, la Sharia, che originariamente connotava il “cammino verso l’acqua”, fornisce la base fondamentale per il diritto all’acqua.
Gli stessi Stati Uniti hanno avuto molti sostenitori dell’acqua come bene comune. Il giurista britannico William Blackstone, autore nel diciottesimo secolo dei primi trattati sul common law, l’ordinamento giuridico anglosassone, ed ispiratore della Costituzione degli Stati Uniti, scrisse:
L’acqua e’ un elemento mobile, itinerante, e deve pertanto continuare a essere un bene comune per legge di natura, così che io posso averne solo una proprietà di carattere temporaneo, transitorio, usufruttuario.
Ancor prima d’essere sancito come norma giuridica, tuttavia, il diritto all’acqua è sempre stato visto come diritto naturale – un diritto che deriva da un implicito consenso ecologico sull’esistenza umana.
In quanto diritti naturali, quelli relativi all’acqua sono diritti di usufrutto: l’acqua può essere utilizzata ma non posseduta.
Nelle parole del giurista indiano Chattarpati Singh:
Il fatto che il diritto all’acqua sia presente in tutte le legislazioni antiche, comprese le nostre dharmasastra e le leggi islamiche, e il fatto che tali norme continuino a sussistere come leggi consuetudinarie nell’epoca moderna, contraddicono l’idea che quelli sull’acqua siano diritti puramente giuridici, ossia garantiti dallo stato o dalla legge1.
A cura di Alice Benessia, Maria Bucci, Simone Contu, Vincenzo Guarnieri.