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Le biotecnologie agricole come esperimento tecno-scientifico

La ricerca, lo sviluppo e la coltivazione su larga scala di piante geneticamente modificate sta variando rapidamente il panorama dell’agricoltura mondiale. Nel 2007, le colture transgeniche si sono estese su 114 milioni di ettari, per un giro d’affari complessivo di 6,9 miliardi di dollari, corrispondente ad una quota pari al 21% dell’intero mercato dei semi (www.isaa.org 2007). Si tratta di una sperimentazione tecno-scientifica diretta ed irreversibile senza precedenti, con effetti socio-ambientali su scala locale e globale.

I vantaggi proposti dall’industria biotech variano dalla resistenza agli erbicidi, che possono dunque essere applicati anche nel periodo di coltura, alla resistenza agli insetti nocivi o ad altri organismi patogeni come funghi, virus e batteri – il che limita l’utilizzo di pesticidi- alla resistenza a condizioni climatiche estreme, quali siccità prolungata o elevata salinità del terreno, sino ad un possibile maggiore potere nutritivo[1]. Fra gli effetti collaterali ad oggi più controversi, oltre ai possibili rischi per la salute umana, sono i possibili effetti nocivi su specie non target ovvero su organismi non previsti[2], la possibile diffusione incontrollata di specie geneticamente modificate in grado di prevalere sulle specie selvatiche e di modificare irreversibilmente gli ecosistemi nei quali sono inserite[3]. Il dibattito pubblico sulla produzione e sull’utilizzo alimentare di piante geneticamente modificate si articola comunemente attorno ai possibili rischi per la salute e per gli ecosistemi da un lato, ed ai possibili vantaggi produttivi ed ambientali dall’altro, ovvero si articola nelle modalità tipiche dell’analisi quantitativa dei costi-benefici[4]. L’emergenza alimentare, soprattutto neipaesi del Sud globale,  è utilizzata in tale contesto come spinta a considerare come prioritari i possibili benefici, ad esempio di una maggiore resistenza agli effetti nefasti del cambiamento climatico o un maggior potere nutritivo, e a mettere in secondo piano i possibili rischi. Il principio di precauzione è delineato in tale contesto come un’etica ed una politica del lusso, applicabile forse nel Nord industrializzato, ma inaccettabile nel Sud globale in stato di emergenza[5].

A cura di Alice Benessia, Maria Bucci, Simone Contu, Vincenzo Guarnieri.


[1] Celebre e controverso è il caso del cosiddetto Golden Rice, un riso arricchito di vitamina A.

[2] Caso emblematico a questo proposito è il lavoro pubblicato nel 1999 sulla rivista britannica Nature da parte di un gruppo di entomologi della Cornell University, guidati da John E. Losey, nel quale si sosteneva che il polline di un tipo di cotone transgenico era mortale per le larve della farfalla monarca.

[3] Celebre e sua volta molto controverso a questo proposito è un lavoro pubblicato nel 2001 sulla rivista Nature, da un professore della Berkeley University, Ignatio Chapela e da un giovane ricercatore del suo gruppo David Quist, nel quale si denunciava la contaminazione genica di un mais transgenico in una delle culle della biodiversità del mais nativo in Messico, dove era in atto una moratoria sin dal 1998.

[4] Ovvero, nella terminologia introdotta dalla studiosa di politiche della scienza dell’università di Harvard Sheila Jasanoff, nelle modalità tipiche delle “tecnologie della hybris” (si veda il testo introduttivo su Sostenibilità e Democrazia).

[5] Si veda a tal proposito il dibattito tra Vandana Shiva e Suman Sahai (Sahai 1997, Shiva 1997)) e il rapporto del Nuffield Council on Bioethics sull’utilizzo delle piante geneticamente modificate nei paesi in via di sviluppo (Nuffield Coouncil on Bioethics 2004).





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