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Verso una democrazia alimentare globale

Gli accordi internazionali sui quali si fonda il sistema agroalimentare attuale, per lo più emanati dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, considerano il cibo come prodotto di mercato. Ciò significa porre l’accento, nell’affrontare la crisi alimentare, sull’aumento della produzione totale. Naturalmente, il cibo è, anche e primariamente, un diritto fondamentale, in quanto indispensabile alla sopravvivenza e alla salute umana. L’articolo 25 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani1 sancisce una norma per l’accessibilità e la distribuzione del cibo in un sistema economico.

(1) Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari […].

L’approccio politico focalizzato sul cibo come diritto umano fondamentale implica un’enfasi sul miglioramento dell’accesso al cibo da parte delle fasce più vulnerabili2. In altre parole, si tratta di porre più attenzione alla distribuzione e menoalla produzione. Anche l’economista indiano Amartya Sen, premio Nobel nel 1998, contesta l’impostazione del problema della denutrizione e della povertà in funzione della disponibilità alimentare globale, ovvero di disponibilità calorica pro-capite, e popone di spostare l’accento sull’accessibilità alimentare dei nuclei familiari.

La fame è la caratteristica per la quale le persone non hanno abbastanza cibo. Non è la caratteristica per la quale non c’è abbastanza cibo da mangiare. Se la seconda può essere causa della prima, è soltanto una fra le tante possibili cause. Se e come la fame sia connessa alle scorte alimentari è una questione di indagine fattuale (Sen 1982).

Proprio nella prospettiva dell’indagine fattuale di Sen, il rapporto dell’IAASTD (International assessment of agriculture science and technology for development) incoraggia una maggiore responsabilità pubblica dei governi locali (la cosiddetta public accountability), in modo da assicurare che le loro politiche siano costantemente guidate dalla necessità di alleviare denutrizione e malnutrizione mediante una maggiore equità distributiva, e la costruzione di una maggiore resilienza delle fasce di popolazione più fragili di fronte alle sollecitazioni politiche e ambientali3.

Le conclusioni del rapporto riconoscono chiaramente che la liberalizzazione del mercato ha un impatto negativo sui più vulnerabili e invocano un dibattito aperto sulle politiche agroalimentari globali. Il settore dei coltivatori di piccola scala nei paesi in via di sviluppo più poveri è perdente nella maggior parte degli scenari di liberalizzazione del commercio proposti per far fronte alla questione della crisi alimentare. (IAASTD 2008 Key Finding 17)

Si tratta dunque di attuare un cambiamento di paradigma verso politiche che non siano focalizzate più primariamente sugli aiuti alimentari e sulle soluzioni tecnologiche per aumentare la produzione globale, ma che riconsiderino il ruolo politico, economico, sociale ed ambientale dei cicli produttivi locali.

A cura di Alice Benessia, Maria Bucci, Simone Contu, Vincenzo Guarnieri.

1 Emanata nel 1948 è il fondamento dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.

2 La vulnerabilità è invocata come un criterio fondamentale da associare alle più comuni valutazioni di costi-benefici dall’esperta di politiche pubbliche Sheila Jasanoff. Si veda a tal proposito il documento Sostenibilità e Democrazia: le tecnologie dell’umiltà.

3 La resilienza designa nel suo significato originario, la capacità di un materiale di resistere ad una sollecitazione impulsiva. Mutuato in ambito sociale indica la capacità di un gruppo o una comunità di adattarsi ai cambiamenti repentini o traumatici. L’emergenza alimentare in Niger nel 2005 può essere interpretata come il risultato di una scarsa resilienza della popolazione locale.





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