Il dibattito sul possibile superamento dell’era del petrolio si articola comunemente attorno alla ricerca di fonti alternative, in grado di mantenere la crescita economica ed energetica nei paesi industrializzati e di permettere un uguale accesso all’alta potenza ed all’industrializzazione massiccia alle cosiddette economie emergenti, secondo un principio di pari opportunità energetiche – ineccepibile all’interno del paradigma della civiltà fossile. Negli ultimi anni, il vincolo climatico ha imposto una variabile ambientale ineludibile alla complessa equazione della crescita energetica post-petrolio. In tale scenario complessivo, si tratta dunque di cambiare fonte e mitigare gli effetti climatici, mantenendo saldi i pilastri del sistema produttivo attuale: la centralizzazione della gestione, l’alta potenza e l’elevato profitto per pochi attori economici.
Le soluzioni proposte, fondate su tali presupposti, sono molteplici e variegate. Le correnti più conservatrici in materia di sviluppo energetico, spesso molto influenti nelle economie emergenti quali India e Cina, propongono uno sfruttamento indiscriminato delle fonti fossili alternative, quali carbone e gas naturale, ancora in regime di relativa abbondanza, bilanciate da una contrazione delle emissioni di gas serra da parte dei cosiddetti paesi sviluppati, e in misura minore, da tecnologie di sequestro della CO2 emessa1.
Per altro verso, le opzioni più attente alla questione climatica e nel contempo più aderenti alla necessità di una crescita costante della produzione, vedono un ritorno, dopo anni di diffusa opposizione, dell’utilizzo del nucleare 2 (Lovelock 2006). Secondo tali posizioni, il combustibile nucleare, seppur non rinnovabile, relativamente poco abbondante e molto problematico da smaltire, permetterebbe il mantenimento, comunque provvisorio ma efficace sul medio periodo, di un regime energetico ad alta potenza riducendo drasticamente le emissioni di gas serra. L’alto costo e l’elevato rischio nella costruzione, gestione e smantellamento degli impianti di produzione, fanno inoltre del nucleare un esempio di centralizzazione estrema, il che permetterebbe di fatto di non modificare la struttura di produzione e distribuzione attuale.
Nel modello fondato sulla crescita energetica, anche le cosiddette fonti rinnovabili e non climalteranti, primariamente l’energia solare ed eolica, pur disponibili in modo diffuso sul pianeta, possono essere implementate ad alta potenza e in modo centralizzato. I faraonici impianti solari immaginati nelle aree desertiche del Nord Africa, tramite i quali si pensa di rifornire l’intero continente europeo, ne sono un esempio.
Naturalmente, il modello della crescita implica anche il mantenimento della struttura attuale del sistema di trasporto ad alta potenza nel suo complesso e l’ampliamento delle infrastrutture e del numero di vettori che lo costituiscono. L’opzione più allettante e ad oggi più controversa, in termini di effettivo rendimento e soprattutto di impatto socio-ambientale, è quella della progressiva sostituzione della chimica fossile con la chimica organica delle piante, mediante i cosiddetti biocombustibili. Una tale transizione permetterebbe ancora una volta di mantenere la struttura economica e politica attuale, fondata su un’oligarchia produttiva ad alto profitto economico. In effetti, nello scenario dei biocombustibili, l’alta potenza del sistema di trasporto attuale, ovvero l’elevata domanda di combustibile in tempi ridotti, si traduce nella necessità di utilizzare metodi e strutture proprie dell’agricoltura intensiva, a loro volta ad alta potenza, e dunque di concentrare il controllo delle fonti produttive nelle mani di pochi attori economico-finanziari, presenti sul mercato globale. Si prospetta così una rischiosa unione di intenti e di profitti tra l’attuale industria fossile e quella dell’agricoltura industriale e biotecnologica, la quale implicherebbe una competizione sempre più serrata tra necessità alimentari e necessità energetiche nell’utilizzo del suolo fertile ed un inasprimento delle dinamiche di eliminazione dell’autoproduzione agricola3.
La speranza di un’uscita non traumatica dalla civiltà fossile è inoltre riposta, nell’immaginario collettivo, nell’utilizzo dell’idrogeno. Abbondante e non inquinante per eccellenza, l’idrogeno è spesso visto come una fonte energetica alternativa, laddove, in realtà, rappresenta soltanto un vettore energetico. In altre parole, l’idrogeno va prodotto e stoccato, e per produrlo e stoccarlo è necessario utilizzare energia, sia essa di origine fossile, nucleare o rinnovabile. Un suo utilizzo è dunque prospettato, all’interno del paradigma della crescita economica ed energetica, in quanto permetterebbe di estendere al sistema di trasporto attuale ad alta potenza lo spettro e le modalità di utilizzo delle fonti alternative al petrolio sopra dibattute.
Infine, gli investimenti economici e tecnologici per aumentare l’efficienza energetica possono essere, a loro volta, interpretati come fonti aggiuntive, in grado di contribuire al mantenimento della struttura fondante del sistema di produzione, distribuzione e consumo attuali. Tuttavia, come abbiamo visto nel contesto dell’effetto rimbalzo, l’incremento dell’efficienza energetica può stimolare un aumento del consumo energetico, il che riduce, spesso addirittura annulla, l’impatto sul risparmio netto.
In definitiva, l’enfasi sugli aspetti scientifici e tecnologici della sostituzione del petrolio nel dibattito pubblico dominante, mantiene in vita la stretta correlazione tra crescita economica, crescita della domanda energetica e aumento del benessere, tipica della civiltà fossile.
A cura di Alice Benessia, Maria Bucci, Simone Contu, Vincenzo Guarnieri.